E’ tutto un parlare di smartworking ora che siamo tutti chiusi a casa, ma trovo sempre più spesso che si facciano confusioni tra telelavoro, smartworking, remote working e lavoro in generale. Tutto normale, amiamo parlare di cosa non conosciamo :).
Data la situazione attuale molti lavoratori sono stati costretti a lavorare da casa per la quarantena, ovviamente parliamo principalmente di lavori impiegatizi e del terziario, difficile immaginare un tornitore che possa fare la sua attività da remoto (almeno oggi come oggi). E con il lavoro da casa sono usciti decaloghi agghiaccianti, pressapochismo allo stato dell’arte e giuste perplessità di fronte a richieste tipo: “però devi usare il tuo computer”, per non parlare di PA che si sono lanciate in acrobazie documentali da far firmare ai propri lavoratori con asinate persino sui riferimenti di legge (ovvio con richiami pre-GDPR assolutamente insensati :-))
Il tutto nasce, ovviamente, da impreparazione, cialtronaggine e improvvisazione in tempi di crisi, ma cosa rimarrà’ dopo che la crisi sara’ passata? Almeno abbiamo capito di cosa si parla?
Innanzi tutto smart working è un temine che esiste solo in italia e non significa assolutamente nulla, si dovrebbe dire telelavoro (sai com’è siamo in italia) o, con notazione altrettanto obbrobrioso, lavoro agile.
Ma siccome tutti lo chiamano smart working, continuerò a chiamarlo così visto che sembra che altrimenti non si capisca di cosa si parla.
Lo “smart”-working non e’ il lavorare da casa facendo quello che facevo in ufficio, lo smartworking richiede un cambio di paradigma nella gestione e misurazione del lavoro che si sposta dall’orario/presenza ad obiettivi misurabili inerenti la attività. Il problema e’ quindi essenzialmente manageriale e di processo. L’idea sottesa allo smartworking non e’ lavorare da casa, ma offrire una prestazione allineata ad obiettivi concordati. Il dove, come e quando si fa e’ poi un problema contingente al tipo di prestazione richiesta. Risulta quindi chiaro che, in termini di smartworking, la specifica attività possa richiedere il monitoraggio di indici di produttività che fanno parte degli obiettivi concordati. Ma sia chiaro devono essere indici che fanno riferimento agli obiettivi cui la attività è preposta. Nel caso non vi siano vincoli, ad esempio, legati all’interfacciamento col terzi (si pensi ad uno sviluppatore, un copywriter, uno scrittore) persino le fasce orarie possono non avere senso. Il target naturale dello smart-working e’ il Knowledge worker, che per definizione ha nella sua prestazione intellettuale, conoscenza, creatività il valore aggiunto che offre all’azienda, in questi termini certi vincoli sono semplicemente controproducenti, l’unico che ha senso è l’oggetto della prestazione nelle tempistiche concordate.
Se gli obiettivi sono raggiunti, come questo sia fatto e’ assolutamente secondario a patto che non vi siano violazioni di qualche tipo degli accordi tra le parti. Sta al management fissare obiettivi concreti, misurabili e temporalmente accettabili che vanno eventualmente concordati. Uno dei problemi del Knowledge Working (e quindi dello smart-working) e’ che non vi sono riferimenti assoluti per tutti, ecco perché l’unica misurazione che ha senso e’ quella ad obiettivi. Certo questo richiede da entrambe le parti (imprenditore/manager e prestatore d’opera) un approccio al lavoro professionale e serio. Per chiarire il concetto, per poter gestire i Knowledge Worker e lo smartworking occorre che entrambe le parti convengano su un concetto di valore che va al di la della remunerazione monetaria, l’ambiente di lavoro (inteso come insieme di interazioni umane, regole e processi) non e’ un punto secondario nella contrattazione.
Attenzione che una delle ricadute del knowledge working e in senso lato dello smartworking e’ la maggiore mobilità’ della forza lavoro, che tende più facilmente a spostarsi verso soluzioni lavorative più consone, mobilità che in italia dal punto di vista manageriale e’ sempre vista con sospetto e vissuta molte volte come un “tradimento” retaggio forse di un approccio “patriarcale” e impermeabile al concetto di valore apportato dal prestatore d’opera. Buffo come spesso si applichi una categoria morale in maniera non biunivoca, se si può mandar via un collaboratore senza sentirsi in colpa (il business e’ business) il management italiano ha ancora difficoltà a accettare che un prestatore d’opera se ne vada semplicemente perché vuole migliorare la sua posizione lavorativa o, spesso, per allontanarsi da un ambiente che non lo gratifica professionalmente e quindi da un giudizio negativo in merito.
In ultima analisi lo smartworking non e’ per tutti ne per tutte le funzioni, i vincoli culturali e manageriali, ad esempio, sono tanto forti quanto quelli operativi:
1) deve essere possibile avere un lavoro per obiettivi (che include la loro misurabilità’ nei diversi aspetti: temporale, qualitativo etc etc etc)
2) il management deve essere preparato per questo tipo di gestione
3) deve esistere una infrastruttura che consenta lo svolgimento dello smartworking (che ripeto nulla o quasi centra col lavorare da casa) in termin di strumenti e processi
4) si devono trovare knowledge workers che siano compatibili con gli obiettivi ed i processi in atto nella azienda.
Laddove almeno questi 4 punti siano verificati si può iniziare a parlare di smart-working, altrimenti siamo al telelavoro, lavoro da casa, o chiamatelo come si voglia.
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