Monarchia e Liberalismo: Un matrimonio impossibile, con un divorzio che aspetta solo di essere firmato?

Perchè l’ignorante sono io

Ogni tanto su X trovi persone di indubbia levatura e capacità analitica, ma per lo più poi trovi quelli che fanno invece di incompetenza su vari ambiti il substrato delle loro esternazioni. e così capita che ad una domanda tutto sommato legittima (pur in modalità scherzosa) su cosa ci azzecchi un liberale con un monarchico trovi risposte piene di acredine (voluta o per incompetenza linguistica dirvi non so).

Anche ammettendo che la formulazione espressa fosse, in maniera evidentemente errata dal punto di vista linguistico, vediamo ove il signore dimostra di non sapere ne capire di che parla sopratutto sul punto:

Non c'è neanche un bricioli di contraddizione.

Siccome l’ignorante sono io mi permetto l’arroganza di usare un tono lieve e giocoso, così che i sapienti che fanno della seriosità l’indice della competenza possano rigettare “ab initio” il tutto..🤣

  • Alcuni sostengono che la monarchia costituzionale possa coesistere con il liberalismo, ma spesso questa convivenza è percepita come un’anomalia storica piuttosto che come una sintesi teorica. Paesi come il Regno Unito, i Paesi Bassi e la Svezia mostrano come la monarchia sia stata svuotata del suo significato politico per sopravvivere in una società liberale.

Il sogno del liberale che accetta la monarchia ereditaria: una contraddizione così fragrante che andrebbe servita a colazione insieme a un caffè amaro.

Perché mai un sistema fondato sull’uguaglianza e il merito dovrebbe accettare, anche solo simbolicamente, un sovrano che si guadagna il trono per una gloriosa combinazione di DNA e un’educazione privata di dubbio gusto?

Eppure, eccoci qui, con re, regine e nobiltà che si ostinano a vivere in un mondo che li ha superati da secoli. Vediamo perché questa strana coabitazione non ha né capo né coda, con riferimenti storici e filosofici per dimostrare che sì, anche gli ironici possono citare seriamente.

Il Sangue Blu e la Meritocrazia: Un’Ossimoro in Carne e Ossa

  • Liberalismo: “Siamo tutti uguali davanti alla legge.” Tradotto: chiunque, dal figlio del contadino al nipote dell’industriale, dovrebbe avere le stesse opportunità. Niente scorciatoie, niente privilegi di nascita.
  • Monarchia ereditaria: “Tranquilli, regno io perché mio bisnonno regnava quando ancora si cacciava il mammut.” Perfetto, un sistema dove il talento e il consenso sono totalmente opzionali.

La meritocrazia, pilastro del pensiero liberale, si spezza di fronte a un sistema che distribuisce corone e titoli sulla base del caso genetico. Per un liberale serio, accettare questo è come vendere libri sull’ateismo davanti alla Basilica di San Pietro.

Meraviglioso poi lo spettacolo del liberalismo che si scontra con la monarchia sull’uguaglianza: un duello tragicomico degno di un’opera teatrale. Da un lato abbiamo il liberalismo, tutto intento a proclamare che “tutti sono uguali davanti alla legge,” e dall’altro la monarchia che replica con un sorriso condiscendente: “Sì, certo, ma alcuni sono più uguali degli altri. Specialmente se hanno una corona e un albero genealogico più intricato di una partita a Sudoku.”

Il liberalismo, con il suo amore per il merito, non può tollerare, o mal tollera, l’idea che il potere venga distribuito per eredità. Perché, diciamocelo, il re o la regina non sono altro che figli privilegiati che hanno ereditato il lavoro di famiglia senza mai passare per un colloquio. Mentre il liberalismo lotta per un mondo dove chiunque, dal figlio del panettiere al laureato in scienze politiche, possa aspirare al massimo, la monarchia si limita a rispondere: “Che teneri, i vostri sogni di meritocrazia. Io ho vinto alla lotteria genetica, e questo è sufficiente.”

E poi c’è la questione dei privilegi. Il liberalismo ama sbandierare che la legge è uguale per tutti. Poi guarda il monarca, immune da qualsiasi forma di responsabilità legale, e si accorge che no, non lo è. Perché sì, sbagliare è umano, ma solo un re o una regina può sbagliare impunemente con tanto di parata al seguito. E non parliamo della sovranità popolare, altro cavallo di battaglia del liberalismo. Per un liberale, il potere appartiene al popolo, che sceglie i propri leader. La monarchia, invece, si fa forte di un sistema dove non serve il voto: basta un cognome pomposo e una tiara con più gemme che buon senso.

La cosa davvero ironica è quando i monarchi moderni provano a rassicurare i liberali con la frase: “Ma io non ho vero potere, sono solo simbolico!” Come se questo risolvesse il problema. Un liberale, a quel punto, non può che ridere amaramente, pensando che anche un re che si limita a inaugurare ponti o tagliare nastri continua a incarnare un sistema profondamente ingiusto. Perché, simbolico o no, un monarca rappresenta l’idea che alcune persone nascano per comandare, o almeno per essere adorate senza aver fatto nulla per meritarselo.

E vogliamo parlare della nobiltà? Un’altra delizia per chi ama l’uguaglianza. Titoli come “Conte” o “Marchese” che, sebbene oggi privi di vero potere, perpetuano l’idea che alcuni siano destinati a essere più importanti degli altri. Per un liberale, tutto questo è come uno scherzo mal riuscito: come puoi predicare l’uguaglianza in un sistema dove alcuni ricevono privilegi per diritto di nascita?

In fondo, la monarchia è per il liberalismo ciò che l’acqua è per l’olio: due entità che non possono mescolarsi senza creare confusione. Dove il liberalismo costruisce scale per permettere a chiunque di salire, la monarchia erige troni ben rialzati, inaccessibili ai comuni mortali. Un liberale può tollerare l’esistenza di un re o una regina solo come si tollera una foto imbarazzante del passato: con una dose di ironia e il desiderio segreto che finisca nel cassetto dei ricordi dimenticati.

Un Retaggio Storico Che Non Si Decide a Morire

Se c’è qualcosa che ci insegna la storia, è che l’incompatibilità tra monarchia e liberalismo non è una novità.


La Rivoluzione Francese (1789): “Liberté, Égalité, Fraternité… e Luigi XVI senza testa.” I rivoluzionari non hanno semplicemente “disapprovato” la monarchia, l’hanno dichiarata un’eresia contro la sovranità popolare. La monarchia non era solo nemica del progresso, era il problema.

Gloriosa Rivoluzione Inglese (1688): Un compromesso, dicono. Il re accetta di stare buono mentre il Parlamento prende il potere. Ma non è proprio un trionfo del liberalismo: è più come mettere un leone in gabbia e far finta che sia un gattino.


La storia è infatti quel grande magazzino di contraddizioni dove i monarchi si ostinano a fare gli invitati indesiderati a una festa chiamata progresso. Se c’è qualcosa che il passato ci insegna, è che la monarchia e il liberalismo sono come due parenti che non si sopportano ma devono fingere di andare d’accordo ai pranzi di Natale. E mentre il liberalismo, armato di “Liberté, Égalité, Fraternité,” cerca di liberarsi del vecchio sistema, la monarchia si ostina a indossare la sua tiara e a sedersi a capotavola, facendo finta di non aver notato l’invito scaduto.

Prendiamo la Rivoluzione Francese del 1789. I rivoluzionari non si sono limitati a dire: “Sai, Luigi XVI, forse dovresti fare un passo indietro.” No, hanno deciso che il passo indietro doveva essere un salto mortale… direttamente sotto la lama della ghigliottina. Perché la monarchia non era solo un ostacolo al progresso; era il simbolo stesso di tutto ciò che un liberale detesta: privilegi di nascita, disuguaglianza, e la convinzione che un uomo con una corona valga più di uno con un cappello. Insomma, Luigi XVI non aveva solo perso la testa figurativamente; l’ha persa anche letteralmente.

Ma non facciamoci ingannare: non tutti i paesi hanno preso una strada così “decisiva.” Guardiamo alla Gloriosa Rivoluzione Inglese del 1688, un esempio di come un compromesso possa essere tanto glorioso quanto ipocrita. Il Parlamento, stanco delle bizze dei sovrani, ha gentilmente chiesto al re di stare buono e di lasciargli il potere. E il re, forse un po’ riluttante, ha accettato. Il risultato? Una monarchia costituzionale che sembrava a prova di liberalismo, ma in realtà era come mettere un leone in gabbia e far finta che fosse diventato vegetariano. Certo, il Parlamento comandava, ma il re continuava a passeggiare con la sua corona, ricordando a tutti che, simbolico o no, il potere ereditario era ancora lì, ben presente.

Ed è proprio qui che troviamo il paradosso più grande: le monarchie costituzionali moderne, quei curiosi ibridi che mescolano democrazia e nobiltà in un cocktail improbabile. Da un lato, abbiamo governi eletti, parlamenti e costituzioni. Dall’altro, abbiamo re, regine e un’intera fila di aristocratici che si tramandano titoli, terre e privilegi come se fosse il 1298 e non il 2024. È come se il liberalismo avesse deciso di tollerare un cimelio storico nella speranza che nessuno faccia troppe domande.

Prendiamo, ad esempio, la monarchia britannica. La regina Elisabetta II (pace alla sua tiara) era considerata il simbolo della stabilità, ma non dimentichiamoci che il suo ruolo derivava da una linea di sangue che risale a tempi in cui i barbari giocavano a Risiko con l’Europa. E adesso, con Carlo III, la tradizione continua: un uomo che è diventato re perché… beh, perché sua madre era regina. Nessun voto, nessuna campagna elettorale, nessun CV da presentare. Solo un atto di nascita con una dicitura speciale: “Re in attesa.”

E la nobiltà? Anche qui il liberalismo si trova a dover ingoiare un boccone amaro. In paesi come il Regno Unito, i titoli nobiliari continuano a esistere, insieme a un’intera cultura di privilegi che non ha niente a che fare con il merito. Certo, oggi la nobiltà è in gran parte decorativa, ma il messaggio resta: “Se hai il cognome giusto, sei più importante degli altri.” Per un liberale, è come dover accettare che qualcuno vinca una gara a cui nessun altro ha potuto partecipare.

E così, il paradosso continua. Le monarchie costituzionali moderne provano a presentarsi come innocue, persino utili, dicendo: “Ma siamo solo simboliche!” Certo, simboliche, ma che simbolo rappresentano? Per un liberale, continuano a essere il monumento vivente a un sistema che privilegia la nascita sul merito, il caso sul consenso, e il passato sul presente. Sono come un dipinto appeso al muro: bello da vedere, forse, ma assolutamente irrilevante per chi cerca di costruire un futuro.

Alla fine, il liberalismo e la monarchia costituzionale convivono solo perché il primo chiude un occhio e finge che il secondo non rappresenti una contraddizione ambulante. Ma il problema resta, come una macchia di vino su una tovaglia bianca: impossibile da ignorare, anche se la nascondi sotto un centro tavola. E il liberalismo, ogni tanto, non può fare a meno di chiedersi:

“Quanto ancora dobbiamo portare avanti questo teatrino?”

Filosofia Politica: Le Voci Critiche

Gli intellettuali liberali non si sono certo risparmiati nel criticare la monarchia e la nobiltà:

John Locke, il signor “consenso dei governati”, suggeriva che ogni autorità, re inclusi, deve derivare dalla volontà popolare. L’eredità regale? Per lui, un concetto più obsoleto delle teorie di Aristotele sul moto.

Jean-Jacques Rousseau, il poeta del Contratto Sociale, liquidava la monarchia come una violazione della libertà umana. Per Rousseau, un re eredita il potere come un ladro eredita una casa: con scasso e sopruso.

Alexis de Tocqueville osservava che la disuguaglianza basata sul sangue è il marchio delle società aristocratiche, non liberali. Per lui, tenere i monarchi in un sistema liberale è come avere un Nokia 3310 in un mondo di iPhone: nostalgico, ma inutile.

La filosofia politica è quel meraviglioso regno delle idee dove i grandi pensatori si sono armati di penna e inchiostro per smontare pezzo per pezzo i castelli della monarchia. Se c’è una cosa che gli intellettuali liberali sapevano fare bene, era prendere il concetto di sovranità ereditaria e ridurlo a un cumulo di polvere, con tanto di sarcasmo sottile e argomenti spietati.

John Locke è il primo che non si è fatto scrupoli. Il nostro “signor consenso dei governati,” uno che credeva fermamente che il potere dovesse derivare dal popolo, guardava la monarchia ereditaria come un reperto archeologico in attesa di finire in un museo. Per Locke, l’idea che qualcuno possa governare solo perché suo padre lo faceva era più assurda delle teorie aristoteliche secondo cui la Terra sta al centro dell’universo. Locke si sarebbe fatto una bella risata guardando un re sul trono e dicendo: “Davvero, questo è il vostro modello di governance? È il 1600, non l’Età del Bronzo.”

E poi arriva Jean-Jacques Rousseau, il poeta dell’uguaglianza, che con il suo Contratto Sociale ha praticamente scritto il manifesto dell’anti-monarchia. Per Rousseau, la monarchia ereditaria non era solo sbagliata; era un vero e proprio furto. Un re che eredita il trono, secondo lui, è come un ladro che si impadronisce di una casa: non c’è merito, solo forza (o, in questo caso, un certificato di nascita privilegiato). Rousseau, con la sua visione utopica della volontà generale, guardava alla monarchia come a una reliquia feudale che puzzava ancora di torce medievali e servitù obbligata.

E poi c’è Alexis de Tocqueville, l’uomo che ha osservato la democrazia americana e ha pensato: “Questo sì che è progresso.” Tocqueville non era il tipo da risparmiare giudizi taglienti, e sulla monarchia è stato chiaro: è il marchio di fabbrica di una società aristocratica, non di una liberale. Per lui, mantenere un monarca in un sistema democratico era come insistere a usare un Nokia 3310 in un mondo pieno di iPhone. Certo, il Nokia era resistente, nostalgico e funzionava bene per giocare a Snake, ma non aveva alcun senso in un mondo che si muoveva verso la connettività globale. Tocqueville, insomma, vedeva la monarchia come un peso morto, un simbolo di un passato che le società liberali dovrebbero lasciarsi alle spalle senza rimpianti.

E non dimentichiamo i loro colleghi meno celebri, ma altrettanto pungenti. Voltaire, ad esempio, non si faceva pregare per ridicolizzare la monarchia e i suoi cortigiani, descrivendoli come parassiti che si crogiolano nel lusso mentre il popolo soffre. E Immanuel Kant, pur non essendo un attivista politico, avrebbe trovato profondamente irrazionale un sistema che premia la nascita anziché l’uso della ragione. Perché, diciamocelo, per un filosofo illuminista, basare il potere su un albero genealogico è come scegliere il capo di un’azienda tirando i dadi: non proprio un inno alla razionalità.

La filosofia liberale, insomma, ha sempre visto la monarchia come un’antitesi della modernità, un ostacolo insopportabile sulla strada verso l’uguaglianza e la libertà. Gli intellettuali dell’epoca non erano solo critici; erano spietati. Per loro, il re non era una figura nobile e venerabile, ma un simbolo vivente di tutto ciò che il liberalismo voleva abolire: privilegio senza merito, potere senza consenso, autorità senza responsabilità. Un monumento a un passato che si ostina a non morire, anche quando la modernità lo ha già dichiarato obsoleto.

per onestà intellettuale esistono anche pensatori che hanno provato a riconciliare queste due visioni contraddittorie.

esistono pensatori e politici che hanno cercato di sostenere, con varie argomentazioni, che monarchia e liberalismo possano essere compatibili, anche se il loro sforzo spesso appare più come un esercizio di equilibrismo intellettuale che una solida teoria filosofica. Questi pensatori hanno elaborato visioni in cui la monarchia, depotenziata o simbolica, può convivere con i principi fondamentali del liberalismo, come la sovranità popolare e l’uguaglianza. Vediamo alcune delle loro argomentazioni e figure principali.

Edmund Burke: Il Conservatore Pragmatico

Edmund Burke, filosofo e politico britannico del XVIII secolo, è forse uno dei più noti sostenitori di una coesistenza tra monarchia e liberalismo, seppur in una forma moderata. Burke non era un liberale puro, ma un conservatore che apprezzava le riforme graduali e si opponeva ai cambiamenti radicali come quelli introdotti dalla Rivoluzione Francese. Per Burke, la monarchia costituzionale, come quella britannica, era un baluardo contro il caos e l’anarchia. Egli riteneva che la monarchia, limitata da una costituzione e dal parlamento, potesse fornire stabilità e continuità, due elementi essenziali per una società liberale.

Secondo Burke, la monarchia non era incompatibile con il liberalismo perché poteva essere trasformata in un’istituzione simbolica che incarna l’identità nazionale e il rispetto per la tradizione, senza ostacolare il progresso politico. Insomma, per Burke, un re che non governa, ma rappresenta, può essere utile, persino in un sistema liberale.

Benjamin Constant: Monarchia e Libertà

Benjamin Constant, uno dei maggiori pensatori liberali francesi, ha riflettuto a lungo sul rapporto tra monarchia e libertà. Pur essendo critico verso le monarchie assolute, Constant credeva che una monarchia costituzionale potesse avere un ruolo in un sistema liberale, fungendo da garante della neutralità istituzionale. Per lui, il re costituzionale doveva essere un arbitro, un simbolo di unità e stabilità, privo di poteri reali, ma utile per bilanciare i conflitti tra le forze politiche.

Constant sosteneva che una monarchia depotenziata non fosse necessariamente in contraddizione con la sovranità popolare, a condizione che il re non avesse influenza diretta sulle politiche del governo. La sua visione si basava sul modello britannico, che considerava un esempio di equilibrio tra tradizione monarchica e progresso liberale.

Alexis de Tocqueville: La Monarchia Come Transizione

Anche Alexis de Tocqueville, pur critico verso le disuguaglianze aristocratiche, ha mostrato una certa apertura alla possibilità di una convivenza tra monarchia e liberalismo, almeno in una fase di transizione verso la democrazia. Tocqueville osservava che in alcune società, come quella britannica, la monarchia poteva fungere da ponte tra passato e futuro, unendo simbolicamente la tradizione con le aspirazioni di libertà ed eguaglianza.

Per Tocqueville, la monarchia non era necessariamente un nemico del liberalismo, ma un elemento che poteva essere sfruttato per garantire una transizione graduale e pacifica verso un sistema più democratico. Tuttavia, era scettico sulla possibilità che questa convivenza potesse durare a lungo termine.

Antonio Rosmini: La Monarchia Come Ordine Naturale

In Italia, Antonio Rosmini, uno dei principali filosofi cattolici del XIX secolo, sviluppò una teoria in cui monarchia e liberalismo potevano essere conciliati. Rosmini sosteneva che il potere monarchico, se limitato da una costituzione e dalle leggi, potesse essere compatibile con i principi di libertà e giustizia. Egli vedeva nella monarchia un riflesso dell’ordine naturale, in cui l’autorità, se esercitata con saggezza e moderazione, poteva convivere con i diritti individuali.

Rosmini riteneva che una monarchia costituzionale potesse essere il miglior equilibrio tra il bisogno di stabilità e la necessità di garantire la libertà dei cittadini. La sua visione, tuttavia, era influenzata dalla sua fede cattolica e dalla convinzione che l’autorità monarchica dovesse essere subordinata ai valori morali e religiosi.

E in italia?

l’Italia, quel meraviglioso laboratorio politico dove ogni concetto si mescola come in un grande minestrone. Quando si parla di monarchia e liberalismo, la storia italiana è particolarmente interessante, perché ci regala figure che si sono avventurate nei meandri di questo rapporto complicato, talvolta sostenendolo, talvolta demolendolo. E sì, sorprendentemente, ci sono stati anche liberali monarchici. Un ossimoro vivente? Forse. Ma in Italia siamo bravi a far convivere gli opposti, come pasta e burro (per i puristi, un’eresia), o tradizione e progresso.

Giolitti: Il Funambolo tra Liberalismo e Monarchia

Cominciamo con Giovanni Giolitti, il “re” non coronato dell’età liberale italiana. Giolitti era un liberale che, pur riconoscendo l’importanza della monarchia come istituzione, la trattava con un pragmatismo quasi cinico. Per lui, il re era come una di quelle statue in piazza: utile per dare prestigio al contesto, ma da lasciare immobile mentre i veri lavori li facevano altri. Giolitti capì che la monarchia poteva fungere da elemento stabilizzante in un’Italia politicamente fragile, purché restasse al suo posto e non interferisse troppo con le riforme liberali.

Insomma, Giolitti era un po’ come un manager che dice al monarca: “Sì, sì, tu sorridi e fai ciao dalla finestra, che al resto penso io.” Questo approccio gli consentì di governare con un equilibrio che molti giudicarono magistrale, ma non senza suscitare critiche dai più radicali, che avrebbero voluto vedere la monarchia spazzata via.

Cavour e i Liberali Monarchici

E poi c’è Camillo Benso di Cavour, che rappresenta il cuore del liberalismo monarchico italiano. Per Cavour, la monarchia era una parte indispensabile del processo di unificazione, ma non perché fosse innamorato dell’idea di un re. Al contrario, era un calcolatore: sapeva che il re, Vittorio Emanuele II, poteva fungere da simbolo unificante per un paese che altrimenti sarebbe stato un mosaico di stati, dialetti e diffidenze.

Cavour incarnava l’idea del “liberale monarchico,” una figura che oggi potrebbe sembrare contraddittoria. La sua visione era semplice: la monarchia poteva essere tollerata e persino utilizzata come strumento, purché accettasse di essere subordinata alle istituzioni parlamentari. In pratica, voleva un re che regnasse, ma non governasse. Un po’ come avere un capo in ufficio che si limita a firmare le buste paga senza interferire con il lavoro quotidiano.

Mazzini: Il Demolitore della Monarchia

Dall’altra parte dello spettro troviamo Giuseppe Mazzini, che della monarchia non voleva sentir parlare nemmeno a cena. Per Mazzini, il re era l’antitesi della Repubblica, che lui considerava il vero destino dell’Italia. L’idea di affidare la guida di un paese a una figura ereditaria era per lui un insulto alla sovranità popolare e ai principi di uguaglianza. Mazzini vedeva la monarchia come un simbolo di oppressione e di arretratezza, un’istituzione che perpetuava privilegi inaccettabili in una società moderna.

Benedetto Croce: Il Filosofo del Compromesso

Benedetto Croce, filosofo e intellettuale di spicco, offrì una prospettiva più sfumata. Pur essendo liberale, Croce non era un iconoclasta. Credeva che la monarchia potesse avere un ruolo simbolico e persino morale in una società liberale, a patto che non interferisse con il funzionamento delle istituzioni democratiche. Croce, in sostanza, vedeva la monarchia come un elemento decorativo della storia italiana, utile per mantenere una continuità con il passato, ma assolutamente subordinata ai valori liberali.

Esistono quindi Liberali Monarchici?

Sì, i liberali monarchici esistono, e in Italia hanno avuto il loro momento di gloria. Questa categoria (da distinguersi invero per quanto fin qui detto dai liberali) emerge in contesti storici particolari, come l’Ottocento post-napoleonico e il periodo dell’unificazione. Per loro, il liberalismo non era necessariamente in contraddizione con la monarchia, purché quest’ultima accettasse un ruolo limitato e costituzionale. La monarchia era vista come un male necessario, un’istituzione da sfruttare per garantire stabilità e unità, ma da contenere entro rigidi confini.

La domanda, però, rimane: un liberale monarchico è davvero un liberale? O è semplicemente un pragmatico che ha fatto pace con una contraddizione? Perché, diciamolo chiaramente, il concetto di privilegio ereditario è quanto di più lontano ci sia dal credo liberale. I liberali monarchici sono, in fondo, un compromesso storico vivente: tollerano la monarchia come si tollera un vecchio zio un po’ imbarazzante a una festa di famiglia, sperando che non dica niente di troppo sconveniente.

Il Compromesso Pratico: Tollerare il Paradosso

Eppure, in molti paesi, monarchie e liberalismo convivono. Come? Attraverso un compromesso che dovrebbe lasciare i liberali con un retrogusto amaro:

  • Monarchia simbolica: Prendiamo il Regno Unito: Elisabetta II (pace alla sua tiara) e ora Carlo III non governano realmente. Invece, inaugurano ponti e firmano leggi scritte da altri. È un po’ come se ti dicessero: “Puoi essere il capitano, ma il timone è di qualcun altro.”
  • Nobiltà decorativa: Titoli come “Lord” o “Conte” esistono ancora, ma nella maggior parte dei casi non significano nulla, tranne forse l’accesso a club esclusivi e un nome strano per il cane.

Ma c’è di più. La monarchia simbolica e la nobiltà decorativa non sono solo innocue reliquie storiche. Anche in questa forma annacquata, continuano a perpetuare un messaggio che i liberali faticano a digerire: l’idea che esista una categoria di persone che, per diritto di nascita, è “speciale.” Questo nonostante non abbiano fatto nulla per meritarselo se non nascere nella famiglia giusta — una specie di lotteria genetica con un jackpot di corone, castelli e eventi di beneficenza in smoking.

Per i liberali, accettare una monarchia simbolica è come essere costretti a mettere ketchup sulla pasta: una soluzione che non farà mai parte della tradizione, ma che ci si sente obbligati a tollerare per non far crollare l’intero sistema. Il problema, però, è che la presenza della monarchia, anche in forma cerimoniale, trasmette un messaggio implicito di disuguaglianza. Non importa quanto Carlo III inauguri scuole o stringa mani nei ricevimenti ufficiali: resta il simbolo di un’istituzione che pone la nascita sopra il merito.

E poi c’è la questione economica. I liberali si ritrovano spesso a fare i conti (letteralmente) con i costi di mantenimento delle monarchie simboliche. Cerimonie, castelli, restauri, stipendi per cortigiani che hanno un lavoro più nebuloso della descrizione di LinkedIn di un influencer: tutto questo pesa sulle casse pubbliche. Certo, i monarchi moderni si giustificano sostenendo che attirano turismo e mantengono viva la tradizione. Ma per un liberale, questa è una giustificazione debole: è come dire che teniamo in vita i dinosauri per riempire i parchi a tema.

Non dimentichiamo la nobiltà, che aggiunge un ulteriore strato di paradosso al compromesso. I titoli nobiliari, formalmente svuotati di potere, continuano a essere considerati un’aspirazione sociale in certi ambienti. In paesi come il Regno Unito, i membri della nobiltà siedono ancora nella Camera dei Lords, una camera legislativa non elettiva. Sì, avete capito bene: una manciata di ereditieri decide su leggi che riguardano la vita di milioni di persone, senza che nessuno li abbia mai scelti per farlo. Per un liberale, questa è un’eresia politica. Per la nobiltà, è solo martedì.

E poi c’è l’immagine pubblica dei nobili moderni: personaggi che vivono in un curioso limbo tra la tradizione e i reality show. Alcuni si dedicano alla beneficenza o alla conservazione del patrimonio culturale, altri fanno discutere per matrimoni, scandali e interviste imbarazzanti. È difficile per un liberale prendere sul serio l’idea che questi “custodi della storia” possano avere un ruolo significativo nella società moderna.

Una delle giustificazioni più comuni per mantenere monarchia e nobiltà è che fungano da elementi di stabilità in un mondo in costante cambiamento. Si dice che i monarchi simbolici siano un punto di riferimento per l’identità nazionale, un legame con il passato che dà continuità al presente. Ma per un liberale, questo è, ancora, un argomento debole: è come dire che teniamo in casa la vecchia macchina da scrivere di nonna perché “ci ricorda tempi più semplici.” Bello, certo, ma poco funzionale.

La verità è che monarchia e nobiltà persistono non per meriti propri, ma perché il sistema liberale le tollera come un compromesso storico. Sono il risultato di un patto non scritto che dice: “Vi lasciamo essere simboli, ma non oltrepassate i limiti.” E questo compromesso, sebbene funzionale, lascia sempre i liberali con l’amaro in bocca. Perché, alla fine, accettare la monarchia e la nobiltà significa ammettere che l’uguaglianza, quel sacro principio liberale, ha delle eccezioni. E per chi crede nel merito e nella sovranità popolare, questa è una pillola difficile da mandare giù.

Può la nobiltà essere integrata in un sistema liberale? Forse, ma a quale costo?

  1. Disuguaglianza perpetua: Anche se spogliata di ogni potere, la nobiltà resta un emblema vivente della disuguaglianza ereditaria.
  2. Erosione della meritocrazia: La semplice esistenza di privilegi di nascita mina la narrativa liberale secondo cui il merito deve prevalere.
  3. Populismo in agguato: I monarchi e i nobili diventano facili bersagli per movimenti populisti, che li accusano di essere inutili e costosi.

Conclusione: Via il Cerotto, È Ora di Guardare al Futuro

Per un liberale, la monarchia ereditaria e la nobiltà sono come quelle macchie di muffa in casa: apparentemente innocue, ma simbolo di un problema più profondo. Anche nelle loro forme più “soft”, restano incoerenti con i principi di uguaglianza e merito. Sopravvivono solo perché la società le tratta come cimeli di un passato romantico, senza avere il coraggio di lasciarli definitivamente andare. In un mondo veramente liberale, re e nobili avrebbero lo stesso valore politico di un albero genealogico: una curiosità per gli storici, niente di più.

Questo non significhi che non ossa esistere una categoria politica di “Monarchico-liberali” o “liberal-monarchici” (più ardua concettualmente) che però altro sono dall’essere liberale.

O almeno la vedo così

ciaps

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